giovedì 19 aprile 2007

Osservazioni sul Mentire

A cura di Arminante Antonella, De Luca Melania, Gualtieri Teresa.




«Niente di quello che ho detto è vero, non perché non sia vero ma perché l’ho detto[1],
e viceversa
niente di quello che ho detto è falso, non perché non sia falso ma perché l’ho detto».

Con queste parole Emilio Garroni, nel saggio Osservazioni sul mentire[2], ci introduce nel secolare dibattito sulle relazioni tra verità e menzogna, tra il dire il vero e il dire il falso.
Prima di procedere all’analisi delle tematiche affrontate nell’opera, si rende necessario un chiarimento terminologico per evitare fraintendimenti: non si parlerà di bugia e verità in senso assoluto, ma i termini veridico/veritiero/veridicità saranno utilizzati nell’accezione di «non-bugiardo», ovvero «che dice ciò che ritiene essere vero».
Lo scopo dell’autore è comprendere il comune fondamento della bugia reale e della bugia letteraria. Ciò avviene attraverso una riflessione per analogie e contrasti che dapprima prende in esame le circostanze reali del mentire, per confrontarle poi con quanto accade all’interno della finzione che si crea nel testo letterario. D’altro canto, come sottolinea lo stesso Garroni, «Non sarebbe possibile il “bugiardo letterario” se non ci fosse un “bugiardo realeo, meglio, se in qualche modo non ci fosse una condizione del mentire».

Nella realtà è possibile osservare una vasta fenomenologia del bugiardo[1]:
Il bugiardo sociale costruito che, assetato di consenso, mente per integrarsi nel gruppo. Porta una maschera e, se qualcuno mette in dubbio le sue affermazioni, smentisce con disperazione. E’ un soggetto che tende a credere che le sue bugie non sono in realtà bugie, pur essendo ossessionato dal sospetto che potrebbero esserlo davvero;
Il bugiardo politico e realistico, che presuppone che tutti si comportino come lui, da bugiardi, pur dichiarando l’opposto. E’ preoccupato non tanto del fatto che gli altri gli credano, quanto piuttosto del fatto che le menzogne abbiano successo. Accusato, smentisce con altre bugie o mezze bugie;
Il bugiardo mondano, disinteressato, mente perché mente, senza aver necessariamente scopi pratici. Se viene scoperto neppure smentisce, può sorridere, insistendo sulla bugia o riconoscendo candidamente di aver mentito;
Il bugiardo esiliato dalla società nella società è infantile, angosciato, inquieto e candido allo stesso tempo. Mente e lascia, quasi sempre, indizi pericolosi delle proprie bugie proprio per essere scoperto come bugiardo.

Alla luce di quanto detto finora, dunque, non possiamo spiegare il fenomeno della bugia e del bugiardo con un’unica motivazione, ma possiamo comunque individuare una caratteristica comune: il tratto della socialità.
È la pratica sociale a far emergere la bugia. Lo sostiene anche Oscar Wilde, in La decadenza della menzogna, quando parla di un mitico cavernicolo protobugiardo come del fondatore delle relazioni sociali e della società civile[2]: «il protobugiardo è senza dubbio il vero iniziatore dei rapporti sociali perché l’obiettivo del bugiardo è affascinare, procurare piacere e gioia. Costui incarna le radici della società civile». Egli, una sera, pur non essendo mai uscito dalla caverna per andare a caccia, quando tutti erano riuniti attorno al primo fuoco che mai si fosse acceso, si mise a raccontare di come avesse ucciso il più grosso dinosauro che mai uomo avesse ucciso e, alla richiesta di prove per quanto raccontava, si inventò l'improvviso arrivo di una squadriglia di pterodattili che con i loro artigli avevano sollevato la preda e l'avevano portava via, con ciò unendo frottola a frottola.
Questa capacità di creare qualcosa di simile alla realtà, ma allo stesso tempo di diverso, fonda i rapporti sociali; detto altrimenti, non è sufficiente la pura elaborazione, è necessario anche comunicare a qualcuno questa invenzione. Le motivazioni di tale gesto possono essere fondamentalmente due, ossia la bugia può esser detta per gioco (una bugia fine a se stessa) o per ottenere qualcosa di più (per ingannare). Nel primo caso si ha la dimensione letteraria, i romanzi, le avventure di personaggi inventati che vivono in un universo così vicino e allo stesso tempo lontano da quello della nostra realtà quotidiana. Il secondo è l'ambito dell'inganno per avere un vantaggio personale, un avere di più che la sola nostra dotazione naturale non sarebbe in grado di garantire[3].

Il bugiardo, quindi, non può essere un solitario; è piuttosto il prototipo dell’uomo sociale: la menzogna corrisponde alle aspettative di chi la ascolta, anzi presuppone un “intelligenza” delle aspettative di verità di chi vuole ingannare. Solo se c’è da parte del bugiardo un autentico intus legere, ovvero un “leggere dentro” la mente della sua vittima, egli può sperare di essere creduto. Non c’è bugia senza comprensione dell’altro.
Inoltre non c’è bugia senza conoscenza della verità. Questa questione trova ampio spazio già nelle pagine del Sofista di Platone quando si dice: «Vera è la proposizione che dice su di te le cose come sono, mentre falsa è quella che dice di te cose diverse da quelle che sono. […] (La proposizione falsa) afferma cose che sono, ma diverse da quelle che sono in relazione a te». Il falso, la menzogna non sono il nulla, ma il diverso. Solo tenendo presente i concetti di alterità e di relazione, il concetto di menzogna acquista un significato e una possibilità oggettiva di realizzarsi. È paradossale ma è così: la menzogna, per essere tale, necessita della presupposizione di quella verità che il discorso menzognero provvede poi a negare in un secondo momento. «Il mentire è un condividere (e tradire, aggiungiamo noi) le più generali e specifiche condizioni necessarie di veridicità», sostiene Garroni.
Si può osare addirittura affermare che sia più legato alla veridicità il bugiardo che non il veridico. Il veridico, infatti, è veridico qualunque cosa gli altri pensino di ciò che dice; la coscienza della sua veridicità lo difende a sufficienza da qualsiasi attacco possibile. Il bugiardo, invece, non si rinchiude in un suo universo separato, disinteressandosi se gli altri lo credano o no, ma sceglie contemporaneamente di condividere e di tradire le condizioni del comune comunicare, sceglie due volte.
Inoltre, dal momento che la bugia deve avere un corso, non può non averlo che all’interno del linguaggio condiviso dal gruppo, ovvero all’interno del cosiddetto linguaggio-contesto che il bugiardo condivide con la comunità di parlanti in cui è inserito[4].

Proprio in quanto ha bisogno di condividere un linguaggio-contesto con altri, il bugiardo apporta ad esso le minori possibili variazioni che non debbano essere percepite come tali dagli altri. Il principio cui si ispira è quello del “minimo sforzo”: la bugia proprio perché deve essere forte ed efficace non è mai un’infrazione clamorosa ed ogni nuova bugia è sostenuta dalle bugie precedenti incorporate nel linguaggio-contesto condiviso.
In realtà nessun atto linguistico è la pura e semplice ripetizione di qualcosa di già completamente contenuto in un linguaggio-contesto condiviso: ogni atto linguistico comporta almeno una piccola variazione in un dato o aspetto del contesto, nel significato di una parola o espressione etc.. Quindi, per assurdo, il veridico mente sempre un po’ in quanto apporta variazioni anche solo minime al linguaggio-contesto condiviso, contribuendo alla sua conservazione-trasformazione; e il bugiardo è sempre un po’ veridico in quanto, apportando variazioni al linguaggio-contesto, contribuisce allo stesso modo del veridico alla sua conservazione-trasformazione[5].
Ciò non vuol dire che veritiero e menzognero siano la stessa cosa.
Infatti un’affermazione sarà definita di volta in volta veritiera o menzognera rispetto a certe condizioni fattuali che standardizzano il contesto-linguaggio di riferimento. Ad esempio, nel caso in cui, in uno scambio comunicativo, si sia verificata un’incertezza o uno scarto nella comunicazione, si fa di solito richiesta di un chiarimento, di una precisazione, che possa essere d’aiuto nel ricollegare l’origine del misunderstanding ad una menzogna o semplicemente ad un comportamento linguistico non convenzionale.
L’individuazione di una bugia, dunque, implica una lunga e problematica procedura di riformulazione, esplicitazione e di espansione del contesto volta ad appurare se le variazioni apportate al linguaggio-contesto vengono via via portate alla luce o sono, invece, ostinatamente presentate dal nostro mendace interlocutore come non-variazioni, come pure e semplici repliche del già condiviso.
In sostanza, il bugiardo si configura, oltre che come prototipo dell’uomo sociale, anche come un conservatore: egli non si ferma neanche di fronte all’evidenza, in quanto tenta di far passare come già previste le variazioni da lui apportate, pur essendo queste ultime delle variazioni palesemente finalizzate a portare fuori strada l’interlocutore.

È evidente che la procedura di riformulazione di cui si è detto non è che la specificazione di ciò che è l’intenzione del parlante.
L’idea di intenzionalità sembrerebbe fungere da vera e propria ultima condizione, presumibilmente anche sufficiente, della possibilità del veritiero e del menzognero.
Se si vuole analizzare a fondo il tema dell’intenzionalità, non si può non prendere in considerazione la riflessione filosofica di Sant’Agostino che, pur ricollegandosi a questioni più strettamente teologiche, ci offre comunque degli spunti interessanti.
Per Agostino non tutte le falsità sono menzogne: è mendax colui che vuole ingannare, indipendentemente dalla veridicità delle sue parole. Il male non è nell’errore, ma nell’intenzione di voler fare credere ciò che si ritiene un errore, non nell’ingannarsi ma nell’ingannare. Ovvero la menzogna non è sovrapponibile all’errore.
Di conseguenza, per arrivare ad una definizione chiara della menzogna si deve prendere necessariamente in considerazione il fattore dell’intenzionalità.
«Non è bugiardo chi dice il falso, perché questi potrebbe sbagliarsi, potrebbe scherzare, potrebbe dire il falso per indurre a credere il vero: bugiardo è chi è doppio nella voluntas, chi vuole ingannare esprimendo, con le parole o con altri mezzi, qualcosa di diverso da ciò che crede vero, con la chiara intenzione di far passare per vero il falso». Si mente, quindi, solo se c’è intenzione di mentire. Inoltre chi mente, secondo Sant’Agostino, ha un cor duplex, un cuore doppio, perché pensa una cosa diversa da quella che dice: «ha un pensiero della cosa che sa o ritiene vera e che non dice, un altro di quella che sa o ritiene essere falsa e che dice al posto del primo. Da ciò deriva che si possa dire il falso senza mentire […] e che si possa dire il vero mentendo […]. È dunque dall’intenzione dell’animo e non dalla verità o falsità delle cosa in sé che bisogna giudicare se uno mente o non mente» [6].
Nella valutazione che Sant’Agostino fa della menzogna, dunque, si realizza il passaggio da uno schema diadico (basato sulla struttura mente-parola) ad uno schema triadico (basato sulla struttura mente-volontà-parola)[7].

Si attesta su tutt’altra posizione Garroni, che, invece, sottolinea come le intenzioni dei nostri atti, linguistici e non, siano labili ed insondabili, e quindi rappresentino solo apparentemente una condizione sufficiente della possibilità del veritiero e del menzognero.
Le intenzioni, infatti, non sono mai così nette, anzi sono sempre un po’ ambigue, spesso molteplici, talvolta incapsulate l’una dentro l’altra come scatole cinesi. Ad esempio: si può consapevolmente mentire su aspetti di una questione ritenuti trascurabili, nella convinzione di essere intenzionalmente veridici per gli aspetti essenziali; viceversa, si può essere per un verso veridici pur essendo la nostra veridicità condizionata per altro verso da un’intenzione menzognera che tende a portare fuori strada l’interlocutore[8].

Queste riflessioni, emerse dall’osservazione dalla realtà quotidiana, trovano conferma anche nell’opera letteraria; come sostiene Garroni «una comprensione della menzogna ha rapporti con l’opera letteraria in genere».
Se esaminiamo i bugiardi nella letteratura, anche in questo caso non ci troviamo di fronte ad una “intenzione osservabile” che possiamo leggere direttamente nel testo.
Infatti, pur specificando l’autore tutte le condizioni fattuali per cui una determinata bugia è una bugia, e pur attribuendo esplicitamente ad un personaggio l’intenzione di mentire, l’ambiguità e la labilità, a cui abbiamo precedentemente fatto riferimento, tendono a persistere[9].
È vero, infatti, che ad un personaggio possano essere attribuite intenzioni, ma in realtà egli, in quanto personaggio, non ha intenzioni, semplicemente è il suo autore a prestargliele, spesso solo in situazioni puntuali, non estensibili al contesto complessivo dell’opera.
Ambiguità e menzogna, d’altra parte, sono caratteristiche inerenti essenzialmente al linguaggio: sembra esistere un fondato sospetto che la bugia si inscriva nel parlare stesso. È in questo senso che si coglie l’analogia tra menzogna reale e menzogna letteraria. Dice Eco: «C’è lingua dove c’è menzogna»[10].
Viceversa, la menzogna letteraria differisce dalla menzogna reale, in quanto nell’opera letteraria manca quella “buona volontà dei parlanti” che consente, nella realtà, di limitare e controllare l’ambiguità quel tanto che basta agli scopi del parlare e del comunicare. Nella realtà, le procedure di riformulazione del contesto proseguono fino al momento in cui i parlanti trovano un accordo e si ritengono soddisfatti, in un testo letterario ciò non è possibile. Ciò implica che se il personaggio è un bugiardo, lo è nella misura in cui lo si dice e lo si specifica, non oltre quella misura: non sono possibili espansioni del linguaggio-contesto, ovvero integrazioni idealmente infinite sullo stesso piano della descrizione letteraria.
Tuttavia, l’essere bugiardo del bugiardo, proprio per la sua finitezza, non è mai una caratterizzazione definitiva e interpretativamente conclusiva: è un essere bugiardo sospeso alla sua finitezza ma aperto ad un’interpretazione idealmente infinita. Sebbene, ad esempio, un personaggio dica spesso le bugie al modo di un bugiardo per vocazione, sarebbe errato o quantomeno fuorviante interpretarlo sempre come il bugiardo.

Un personaggio letterario, e l’opera a cui appartiene, quindi, possono essere considerati come un insieme di atti linguistici che presuppongono un linguaggio-contesto condiviso (ovvero il linguaggio-contesto della scrittura di un certo tipo di opere in un certo momento storico), che può essere modificato più o meno profondamente. Di qui la possibilità di cogliere un’ulteriore analogia tra letteratura e menzogna: entrambe hanno alla base meccanismi simili di funzionamento.
Ma rispetto alla menzogna e alla non-menzogna (che, come abbiamo visto nel corso di questo lavoro, presuppongono condizioni di verità comuni e una problematica determinazione delle intenzioni), nell’opera letteraria si manifesta qualcosa come una vera e propria indistinzione tra veridicità e non veridicità. L’opera letteraria è insieme veridica e menzognera, e quindi né propriamente veridica, né propriamente menzognera. In essa, semplicemente, si realizza e si manifesta in modo esemplare il costruirsi, l’assestarsi e il modificarsi di un linguaggio-contesto. Nell’opera letteraria trovano espressione quelle condizioni del dire veritiero e del dire menzognero che nella realtà sono indicibili; l’opera stessa è, anzi, l’esito concreto (quindi esplicito) della comprensione (che è implicita) da parte dell’autore di ciò che è veritiero/non-veritiero.

In questo breve percorso attraverso la menzogna reale e letteraria abbiamo constatato come la condizione universale e necessaria del mentire sia precisamente e nello stesso tempo la condizione universale e necessaria dell’essere veridici. L’opera letteraria non fa altro che mettere esplicitamente sotto i nostri occhi questa duplicità, che è la prova dell’esistenza di una vera e propria vocazione alla menzogna; come dice Garroni: «vivere, fare, esperimentare, parlare, conoscere, pensare è sempre qualcosa che oscilla tra veridicità e menzogna, tra l’avere-a-che-fare-con-qualcosa e il farlo-passare-per-qualcosa-d’altro»[11].

«Niente di quello che ho detto è vero, non perché non sia vero ma perché l’ho detto[12],
e viceversa
niente di quello che ho detto è falso, non perché non sia falso ma perché l’ho detto»
NOTE
[1] Oltre che dei bugiardi, i filosofi si sono più spesso occupati della bugia, della quale, in letteratura, esistono molteplici tassonomie. Ricordiamo in questa sede quelle di Sant’Agostino e Jean Jaques Rousseau.
Sant’Agostino, nella seconda parte del De Mendacio, classifica le menzogne in base al loro utilizzo e in ordine decrescente di gravità:
1. Convertire qualcuno (ed è gravissimo mentire in materia di fede);
2. Far del male tout court;
3. Godere dell’inganno;
4. Fare un piacere a qualcuno nuocendo ad altri;
5. Fare un piacere senza nuocere a nessuno;
6. Ravvivare la conversazione;
7. Salvare una vita;
8. Evitare a qualcuno di subire un oltraggio impuro.
Jean Jaques Rousseau, nelle Confessioni, classifica quattro tipi di menzogna:
1. L’impostura, quando si mente per un vantaggio personale;
2. La frode, quando si mente a vantaggio di altri;
3. La calunnia, quando si mente con l’intento di nuocere;
4. La “bugia innocente”, quando si tace o si deforma una cosa di nessuna utilità o non si reca alcun danno: è la semplice finzione.
[2] Cfr. Oscar Wilde, La decadenza della menzogna, Mondadori, 1995, pag 41-42.
[3] Emblema di quest'atteggiamento nei confronti della vita è la figura di Ulisse. Durante le sue peregrinazioni in giro per il mediterraneo, viene delineato un individuo ambiguo che non mente solo per salvare la propria vita e quella dei compagni, come potrebbe sembrare ad un primo sguardo, ma anche per il semplice gusto della menzogna. Cfr. Andrea Tagliapietra, Filosofia della bugia, Mondadori, 2001, pag. 126.
[4] La nozione di linguaggio-contesto può essere ricondotta alla concezione del linguaggio espressa da Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche. Secondo il filosofo, infatti, il linguaggio, così come è effettivamente usato, è un insieme di espressioni che svolgono funzioni diverse nell’ambito di pratiche e regole discorsive differenti; nasce in relazione ad un insieme di circostanze che egli definisce forme di vita; ed è uno strumento della vita di una comunità.
[5] Il concetto di linguaggio-contesto ha una dinamica e non è descrivibile in maniera netta; dice Garroni: «è precisamente un centro che è immerso nella sterminata periferia del parlare in genere, estendentesi a perdita d’orizzonte e generatrice di centri virtualmente infiniti; che è in rapporto, anche d’intersezione, con innumerevoli altri centri; che è sempre disposto a modificarsi dall’interno, nonché a integrarsi o a distinguersi da altri centri in nuove configurazioni».

[6] Cfr. Agostino, De mendacio, III, 3.
[7] Cfr. Andrea Tagliapietra, Filosofia della bugia, 2001, Bruno Mondatori, pagg. 257-258.
[8] D’altra parte, lo stesso Garroni sottolinea l’esistenza di un rapporto tra veritiero/menzognero e tra vero/non vero affermando: «In tanto si può essere veridici e anche mentire, in quanto si sa o si presume di sapere che c’è qualcosa come il vero». Esiste quindi un’esigenza, una richiesta di verità, da cui non possono esimersi né il veridico né il non veridico.
[9] Come si sa, anche il fatto che un mentitore si dichiari tale non è esente da gravi difficoltà interpretative, come dimostra l’antico Paradosso del mentitore, noto anche come Antinomia del cretese.
[10] «Il linguaggio non serve a conoscere una eventuale realtà, ma a sfiorarla, a non vederla, pur sapendo esattamente dove si trova, anzi presupponendo appunto che questo si sappia in modo indubitabile». Cfr. Giorgio Manganelli, La letteratura come menzogna, 1985, Adelphi ,p. 14.
Il linguaggio può limitarsi a sfiorare la realtà, conosciuta integralmente solo dal pensiero. La letteratura è quindi la più onesta espressione dell’artificialità del linguaggio: è consapevole della sua limitatezza, e sin dal principio si propone fisiologicamente menzognera.
[11] Emilio Garroni, “Osservazioni sul mentire” in Osservazioni sul mentire e altre conferenze, Teda Edizioni, 1994, pag 39.
[12] Tommaso Landolfi, “La muta” in Tre racconti, Vallecchi editore, 1964.

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